Non ci sarà pace. In tutti i momenti della nostra vita ci saranno numerosi conflitti, di forme mutevoli, in tutto il mondo. Il conflitto violento di tanto in tanto occuperà le prime pagine dei giornali, ma le lotte economiche e culturali saranno persistenti e, in definitiva, decisive. Il ruolo di fatto delle forze armate americane sarà quello di mantenere il mondo come un luogo sicuro per la nostra economia e come uno spazio aperto al nostro dinamismo culturale. A tal fine faremo un bel mucchio di cadaveri [a fair amount of killing]. (Tenente Colonnello Ralph Peters, «Constant Conflicts», Parameters, estate 1997)
L'attuale guerra in Iraq, in quanto si pone come tappa e momento di accelerazione della globalizzazione della riproduzione del capitale, ha una posta mondiale. In questo riveste le stesse vestigia delle due guerre mondiali che hanno dato forma all’età contemporanea: lì, attraverso il secco ridimensionamento dei poli di accumulazione concorrenti rispetto a quello statunitense, si trattava d’imporre l’egemonia su scala planetaria della forma più avanzata dello sfruttamento capitalistico, maturata sulla base della sanguinosa sconfitta dell’istanza rivoluzionaria posta dal movimento proletario internazionale; qui, il superamento delle sovranità nazionali e delle logiche «geopolitiche» nel governo di una cert’area viene imposto come coronamento logico della controffensiva che il capitale, a partire dagli anni Settanta, ha opposto alle estese insorgenze sociali che, nei centri come nelle periferie, a Est come a Ovest, avevano sconvolto gli assetti regolamentati su base nazionale dal compromesso fordista e che, alla richiesta di sacrifici per «uscire dalla crisi», avevano allegramente risposto che l’Economia meritava soltanto di crepare.
L’Economia raccolse la sfida, disponendosi nei confronti dello spazio sociale come una deliberata e duratura guerra ai proletari, il cui esito è stato una riorganizzazione di questo spazio funzionale alla riproduzione del capitale su scala globale: a caratterizzarlo sono da una parte la scissione tra il processo di valorizzazione del capitale e la riproduzione della forza-lavo r o e dall’altra l’organizzazione unitaria della violenza. Contro il precedente ciclo di lotte la necessità, invocata a destra e a manca, di far piazza pulita di tutto ciò che ostacola la fluidità del movimento capitalistico e i costanti sconvolgimenti che esso implica dà corso a una ristrutturazione che distrugge ogni specificità, statuto, welfare e compromesso fordista, e che sul piano internazionale supera la divisione del ciclo mondiale del capitale in aree nazionali d’accumulazione, articolate secondo rapporti fissi centro–periferia, Est–Ovest.
Ne è scaturito un nuovo mondo. La globalizzazione non consiste semplicemente nell’estensione planetaria ma in una specifica struttura dello sfruttamento e della riproduzione del rapporto capitalistico. Laddove in passato si dava una localizzazione comune degli interessi industriali, finanziari e della forzalavoro, le frazioni di punta del capitale dànno oggi forma, a livello degli investimenti, del processo produttivo, del credito, del capitale finanziario, della circolazione del plusvalore, del quadro della concorrenza a un «sopramondo» che, sollevato dalla necessità di gestire il rapporto sociale, sta perseguendo a tappe forzate l’obiettivo di ricomporre gli elementi nazionali in protesi funzionali alla dimensione transnazionale, dimensione sulla quale si esercita la «leadershipnaturale» degli Stati Uniti.
Al di sotto, è l’inferno sulla Terra, un «sottomondo» ove il massimo che si possa pretendere è di essere comprati a vita, e nel quale le politiche altro non fanno che concertare le regole dell’uniforme precarizzazione della riproduzione di un salariato sempre più svalutato, esposti alla minaccia costante di venir e precipitati nel girone sottostante, in quel «sottosviluppo» da cui fuggono i migranti, nel girone della fame e delle economie parallele di sussistenza, delle reti di solidarietà, dei campi profughi: quei moderni spazi della vita offesa che sono mostrati, in immagine, dalle TV e di cui gli apparati del Controllo e della Sicurezza sono chiamati a gestire i flussi umani tramite l’esclusione e l’ordinario sopruso, in corpore vili.
In questo nuovo mondo, il rapporto sociale non è che un residuo. Le politiche trattano la gestione globale e demografica della forza-lavoro: salari al limite della sopravvivenza, sotto minaccia di morte, per masse di individui lanciate verso le città dalla distruzione delle agricolture, eliminabili dopo l’uso e massacrate da formazioni paramilitari, eserciti e polizie. La repressione non è permanente, ma dappertutto possibile.
Nelle favelas brasiliane come nelle prigioni statunitensi, nelle periferie delle grandi metropoli come nelle Zone Economiche Speciali della Cina, nei bacini petroliferi del Caspio come in Cisgiordania vi è sempre una guerra poliziesca o una polizia guerriera a garantire la totalizzazione antiproletaria di questa frammentazione della società. Lo spazio di questo nuovo mondo capitalistico è infatti la riproduzione, a tutte le scale (mondiale, continentale, regionale, nazionale, cittadino, di quartiere), di questo inferno, e della sua organizzazione in gironi, che è poi l’organizzazione classica della jungle americana, delle sue città, dei suoi ghetti, delle sue periferie, delle sue Paperopoli.
Se il fascismo venne definito a suo tempo come Al Capone con lo stile del grande capitale, oggi questa formula dev’esserer ovesciata: in questa nuova articolazione dello spazio sociale è il grande capitale a presentarsi con lo stile di Al Capone. È l’intera storia sociale a esserne investita. Tutta la stratificazione di lotte di classe, di aree, di gruppi umani, di resistenze specifi che viene semplificata e riportata a condizioni di governabilità (governance) articolandosi in un intrico che vede i nuclei sovrasviluppati far proliferare, attorno a grumi di capitale, aree in cui la crescente intensità dello sfruttamento fa tutt’uno col prodursi sistematico ai suoi margini di «aree di crisi» in cui predomina la violenza diretta e proliferano i ghetti dell’economia sotterranea e del traffico di uomini controllati dalle mafie.
Le mafie, che rappresentano l’unica articolazione del capitale internazionale capace di gestire al tempo stesso flussi finanziari internazionali e violenza permanente sul piano locale, sono perciò l’alleato naturale di governatori locali che intraprendono autonomamente guerre economiche, piccole guerre di conquista, guerre di vicinato spinte fino all’etnizzazione, le quali contemplano il massacro e la pulizia etnica come mezzi ordinari per il trattamento di quegli esclusi che non sono stati destinati ad altre «aree di crisi».
Una stretta conformità tra l’organizzazione della violenza e quella dell’economia prende piede un po’dovunque. La serie di interventi militari, missioni di pacificazione forzata, operazioni poliziesche, missioni umanitarie – tutto il campionario di «soluzioni» messe in atto nelle piccole guerre barbariche di Colombia, Panama, Somalia, Bosnia, Kosovo, Timor, Zaire e Afghanistan – ha determinato le condizioni di effettuazione della guerra attuale, che ha per oggetto l’affermazione della nuova economia planetaria e della sua articolazione. Organizzazione della violenza e o rganizzazione economica vi sono intricate come non mai, perché questa articolazione dev’essere costantemente imposta.
Israele è stata una testa di ponte, un vero modello nella storia della formazione di siffatto spazio economico-sociale; per la sua semplice esistenza – in quanto rottura geografica nel mondo arabo, incitazione al frazionamento religioso, sterilizzazione delle risorse nello sforzo bellico – è un avamposto militare che ha permesso di colpire direttamente tutti i tentativi di autonomia economica o politica della regione, marcandone il destino di ritardo e sottosviluppo.
Sono le contraddizioni sociali interne del mondo arabo che si sviluppano e si regolano, attraverso le guerre con Israele del 1948, 1956 e 1967. In ragione dell’esistenza e della pressione dei rifugiati palestinesi, la costrizione allo sviluppo imposta dalla presenza israeliana diviene costrizione interna ai Paesi arabi. La trama dei rapporti sociali tradizionali si disfa, rivelandosi incapace d’integrare la massa dei profughi. Il rifugiato palestinese è ormai un proletario a priori.
Dopo il 1967, tutto il proletariato dell’area mediorientale viene coinvolto nel supplizio che per esso rappresenta il modello dello sviluppo autocentrato, e successivamente la sua crisi. Israele, occupati i Territori, raggiunge i limiti del suo modello di sviluppo capitalistico «autosufficiente» fondato sull’«esclusivismo», la valorizzazione del lavoro «ebreo» e i finanziamenti provenienti dalla diaspora, e imbocca perciò la via dell’assemblaggio e del subappalto industriali, in cui viene utilizzata una manodopera palestinese sottopagata: è un «piccolo Drago» che basa la sua economia sulla fissazione di un rapporto di forza da potenza occupante.
È in questo quadro che l’OLP emerge come ultimo bastione di un nazionalismo arabo che gioca il «problema palestinese» nei Paesi arabi in un nuovo giro di carte in cui si tratta di produrre lo sviluppo di un nuovo capitale fondandosi sulla rendita petrolifera. Con il Settembre Nero (1970), l’intervento siriano in Libano (1975) e quello israeliano (1982) i palestinesi sono progressivamente eliminati in quanto forza autonoma che aveva destabilizzato i diversi sistemi di rapporti politici locali della regione.
Dans cette phase initiale de la globalisation, sur fond de pétrodollars, Israël et les pays arabes rivalisèrent dans la manière de reproduire et gérer une force de travail fondée sur son maintien en situation de relégation aussi longtemps qu’elle ne se révèle pas inutile et donc éliminée. La faillite du cadre national arabe et la délégitimisation de l’Etat sont alors les fondements de la renaissance de l’islamisme. Il exprime, organise et contrôle la pauvreté en tant que telle. Il construit le peuple comme une communauté, d’un côté contre les classes sociales, de l’autre contre le citoyen (les deux Satans). Les « damnés de la Terre », dont certains attendaient la destruction du système capitaliste « occidental », sont devenus, à la suite de l’universalisation du mode de production capitaliste, les « inutiles au monde », les « pauvres » qui trouvent l’expression de leur souffrance et la forme communautaire de leur révolte dans toutes les religions.
Nel 1973 la guerra apre una nuova fase di sviluppo del modello capitalistico mediorientale fondato sulla rendita petrolifera, di cui l’embargo e lo choc petrolifero del 1973–74 sono il clamoroso avvio. Ma l’intossicazione da rendita sterilizza la rendita. Quest’ultima circola come reddito in un’economia fondamentalmente distributrice, in cui la forza-lavoro è sempre «troppo cara» e le Rolls-Royce troppo numerose, come se il plusvalore fosse già dato e si trattasse solo di appropriarselo; la manodopera locale è sempre pretenziosa e occorre sostituirla, nei pozzi, sulle navi e dappertutto, con manodopera immigrata, nel pieno accordo interstatuale circa l’opportunità di scambiarsi reciprocamente le forze-lavoro onde abbassarne la rilevanza sociale e il salario. Al tempo stesso, le rimesse dei migranti ai Paesi d’origine, modificano tutte le economie della regione benché queste ultime restino incapaci di riprodurre la classe operaia all’interno dei rapporti capitalistici esistenti. Il sistema entra in crisi negli anni Ottanta, soffocato dal debito che ha accumulato.
In questa fase aurorale della globalizzazione, decretata a suon di petrodollari, Israele e i Paesi arabi fanno a gara nell’affinare i modi di una riproduzione e gestione della forza-lavoro fondata sul suo mantenimento in condizioni di relegazione perché possa essere eliminata una volta resasi «inutile». Il fallimento del quadro nazionalista arabo e la delegittimazione del potere statuale sono il fondamento su cui l’islamismo rinasce come ricettacolo della comune rovina delle classi sociali, e insieme come dispositivo di governo e controllo sulle masse dei diseredati. I «dannati della terra», dai quali certuni si attendevano la distruzione del sistema capitalistico occidentale, divengono, in virtù dell’universalizzazione del rapporto capitalistico, gli «inutili al mondo», i «poveri» morti di fame che in ogni religione trovano l’espressione del loro lamento e la forma comunitaria della loro rivolta.
Al suo apparire, la rivoluzione in Iran fu il colpo di grazia per il nazionalismo arabo. La direzione islamica – uscita vittoriosa dalla resa dei conti con la componente proletaria insorta a Teheran, nei mesi successivi alla caduta dello Scià – che irrompenella storia caratterizzandosi, rispetto all’«Occidente», come una nuova biopolitica con un suo diverso «ideale demografico», dando subito prova delle sue possibili applicazioni pratiche nel «controllo demografico» sulle «aree di crisi» con l’impegnarsi in una quasi decennaleguerra con l’Iraq, il cui unico fine sembra essere stato lo sterminio della popolazione in eccesso prodottasi in entrambi i Paesi all’interno di questo ciclo economico. Nelle petromonarchie e nell’Iraq del Sud la guerra contro «il nemico fondamentalista» veniva utilizzata come «argomento» per il disciplinamento della manodopera dei bacini petroliferi, in larga parte sciita, in forte agitazione.
Anche il nazionalismo dell’Iraq era fondato sulla circolazione della rendita. Contestandone l’aspetto parassitario, la «borghesia nazional-socialista» – che altro non era che una congiunzione di interessi particolari, conve rgenti soltanto nell’esigenza di coinvolgere, cioè di mettere al lavoro, l’esteso proletariato – voleva fare della rendita il fondamento di un’economia nazionale. Il «modello di sviluppo» che ne derivò era palesemente votato al fallimento, e il sistema-Iraq dovette essere tenuto insieme attraverso una «fuga in avanti» militare, la cui strategia consisteva nel porsi fuori del mercato mondiale col ricorso permanente alla piccola guerra barbarica di vicinato. In questo sistema, il carattere fondamentalmente improduttivo delle spese militari non è che un aspetto particolare di una classe di governo che, non avendo obiettivi dichiarati né progetti industriali coerenti fuorché nel loro carattere spartitorio, spara sui riottosi d’ogni genere e spera soltanto nella tenuta del sistema delle esportazioni petrolifere. Sfinito dalla caduta del prezzo del petrolio sotto gli 8 dollari al barile, il «nazionalismo arabo» di Saddam Hussein non è che l’ultimo episodio anacronistico di una serie di espressioni che, col pieno plauso «occidentale», avevano assoggettato i proletaria un «progetto di sviluppo» che aveva nel debito estero il suo fondamento e che alla fine degli anni Ottanta, risultato anche che come cura contro l’espansione dell’islamismo era peggiore del male che doveva curare, era divenuto incongruo.
L’esito della Guerra del Golfo del 1991 ha garantito all’Iraq quella emarginazione dal mercato mondiale cui esso aspirava, e sulla base della quale soltanto poteva resistere col suo apparato di ingrassati affamatori in divisa. Gli USA vi ottenevano invece la soluzione globale del problema della rendita petrolifera attraverso il suo controllo da parte dello Stato americano e delle grandi compagnie petrolifere. La vittoria americana ha consentito di sganciare i problemi della fissazione, della circolazione e dell’utilizzo della rendita da tutte le necessità, gli interessi, le rivalità e le caratteristiche specifiche – demografiche, storiche, economiche e confessionali.
Questa soluzione globale ha potuto stabilirsi escludendo l’Iraq. La reintegrazione dell’Iraq, con il suo peso demografico e le sue riserve petrolifere, è una tappa necessaria del «nuovo corso egemonico unilaterale» permesso dalla fine della Guerra fredda. Oggi, soprattutto con il programma Oil for food, questa «zona di opacità offensiva» ostacola il suo compimento, il controllo di tutti i flussi come condizione di un ricatto assoluto esercitato sulle altre potenze. Se quella del 1991, benché tutti i poli concorrenti dell’economia capitalistica vi venissero brutalmente ridefiniti dal loro rapporto con la potenza statunitense, fu una guerra ancora tutta giocata sul piano della legittimità statuale e interstatuale, l’odierna si proclama apertamente come momento di una «soluzione planetaria» ai disordini interni della globalizzazione. Gli Stati Uniti impongono ai loro «partner» le nuover egole della «protezione» mettendoli di fronte al fatto compiuto della guerra: l’esercito americano interviene a Kandahar, a Mogadiscio o a Baghdad come a Los Angeles.
«Ostile agli interessi degli Stati Uniti» è tutto ciò che, in Medio Oriente o altrove, contrasta con la tensione della potenza statunitense verso «un grado di organizzazione superiore dell’economia» che ora impone di decostruire le sovranità nazionali e le logiche di vicinato territoriale, riunificandone gli elementi dopo averli balcanizzati. Con la fine della Guerra fredda la potenza statunitense agisce come una potenza che deterritorializzando i flussi può, in virtù del vantaggio acquisito, controllarli a proprio vantaggio, e al tempo stesso, affermare la necessità di un maggior potere di Controllo sull’insicurezza sistematicamente prodotta in un mondo siffatto, «facendosi da sé» il nemico interno da debellare. L’Iraq non è che un momento di un processo bellico complessivo e pretesamente «infinito» in cui il nemico è qualsiasi labile forma di opposizione e resistenza alla riorganizzazione dello sfruttamento capitalistico e della sua riproduzione nel nuovo ciclo mondiale del capitale.
Il nemico «terrorista», quindi, non è soltanto il prodotto della costruzione di una propaganda paranoica. L’avversario islamico è perfetto allo scopo di costituire perennemente un nemico funzionale all’obiettivo globale del Controllo sui flussi. L’islamismo che fa la sua comparsa col e nel fallimento del nazionalismo arabo non esprime affatto un progetto nazionale. È anzi il risultato della distruzione in atto del quadro nazionale dell’accumulazione capitalistica: l’universalizzazione del rapporto capitalistico produce incessantemente una classe mondiale dei diseredati che le «economie nazionali», per mezzo del «controllo sui flussi migratori», intendono «integrare» solo nella posizione dell’esclusione a priori e dell’inclusione ben disposta allo sfruttamento. In questa mattanza, la dipendenza dal mercato mondiale attiva «comunità» imposte dall’esigenza di gestire il sistema di esclusioni sulle quali il ciclo complessivo innesta la sua marcia: terribili comunità prodotte dallo sfruttamento dell’esclusione dove il vivere è di contrabbando. L’islamismo è il modello di «gestione delle nuove povertà» adeguato all’area che va dal mar Rosso all’Indonesia: falliti i progetti e le velleità di «sviluppo autocentrato» tale modello autorizza l’odio contro «il ricco», purché esso sia l’Occidente e non i grandi finanziatori delle organizzazioni islamiche, cioè l’insieme degli Stati e potentati della regione.
Da parte sua Israele ha superato da tempo la fase in cui si poneva come «piccolo Drago» dell’area. Adeguandosi al ciclo internazionale della ristrutturazione, si pone come un luogo di sofisticate produzioni high-tech, che si av vale delle nuove regole di gestione della manodopera immigrata. Ciò significa che del proletario a priori, del palestinese, la sua economia non sa che farsene. La soluzione globale del problema della rendita petrolifera le assegna una posizione tutta particolare nel quadro di cui questa guerra vuole accelerare la definizione. L’«equilibrio» scaturito dalla Guerra del Golfo aveva visto lo Stato israeliano obbligato a stringere accordi (a Parigi e a Oslo) che, già al momento della loro ratifica, erano largamente anacronistici. Nel nuovo ordine mondiale, uno Stato fondato sull’identità tra le attività militari e quelle politiche non aveva alcun bisogno di un’Autorità Palestinese che gestisse un rapporto con lo «straniero in casa» che le sue precedenti politiche avevano costituito. E da parte sua, l’Autorità Palestinese non ha fatto nulla perché la propria attività politica fosse qualcosa di diverso da quella gestione rackettistica delle risorse provenienti dagli aiuti umanitari cui si assiste ovunque il dispositivo umanitario ve n ga impiegato. Laseconda Intifada esplode contro l’occupazione israeliana come contro l’Autorità Palestinese. Ghettizzate e ripiegate sulla «comunità terribile» delle solidarietà di vicinato, la società e le lotte palestinesi trovano nell’identità etnico-religiosa ciò che sempre vi si trova: il dispositivo che – laddove la distruzione di ogni distinzione tra economie di guerra e di pace innesta la marcia forzata della piccola guerra barbarica e della pulizia etnica – tratta e pone l’esistenza alla stregua di un derivato della statistica degli omicidi.
I mesi che hanno preparato questa guerra sono gli stessi in cui è stato perpetrato lo s finimento dei Territori Occupati. Si tratta di due momenti distinti ma che concorrono, su scale diverse, all’affermazione dello spazio economico-sociale contemporaneo. Sull’una come sull’altra scala, gli Stati si sono dotati di ogni mezzo necessario per fare «un bel mucchio di cadaveri»: per garantire la Sicurezza e il «dinamismo culturale» delle rispettive economie. Ora hanno bisogno della guerra come dell’aria che respirano.
Il movimento pacifista che si sta manifestando in questi mesi vuole difendere dall’orrore della guerra la società, vista come insieme delle potenziali vittime civili. Denuncia e cerca d’impedire lo scoppio della guerra come se questa dovesse davvero ancora scoppiare. Paventa l’innesco di un processo di esplosioni a catena della cui imprevedibilità, distruttività e inarrestabilità i fautori della guerra in Iraq sarebbero stoltamente incoscienti.
Il movimento pacifista corrisponde strettamente al venir meno del terreno su cui sono stati realizzati i «compromessi storici» tra capitale e lavoro, nel momento in cui la gestione sociale della riproduzione della forza-lavoro e del suo sfruttamento non sono affare della classe capitalistica. In questo quadro, la guerra non è che la forma parossistica di un’esperienza sociale continuamente ripetuta: si prende la gente e la si butta, dopo averla fatta a pezzi. Chi vede la propria esistenza materiale costantemente minacciata dal movimento dell’Economia teme sempre le grandi operazioni di «messa all’ordine» del quale il rapporto sociale necessita. Il movimento pacifista è il movimento della paura di fronte a ciò che al cospetto della società si presenta come dispotismo impazzito della macchina economica che si dispiega coerentemente sull’universo intero delle relazioni sociali e dello spazio naturale mortalmente minacciati.
Questo movimento è contro la violenza inscritta nella ristrutturazione dei rapporti capitalistici, violenza oggi talmente evidente da essere colta anche dalle suore, contro l’accelerazione della messa in forma della ristrutturazione che questa guerra è. I manifestanti americani ed europei, mediorientali e australiani comprendono il legame esistente tra la violenza diretta della riorganizzazione sociale del Medio Oriente e la violenza a venirenel rapporto di sfruttamento. È un movimento di massa proprio perché ha questi caratteri.
Nondimeno, il movimento è pacifista, unanimista, interclassista, e trasuda di spirito consensuale. Presente che la guerra attuale è l’espressione della «guerra civile globale», ma nessun appello alla «guerra sociale» lo farà avanzare oltre quel «democratismo radicale» che lo porta a opporsi alla guerra come se essa fosse soltanto l’espressione della volontà di una specifica parte politica, di cui denuncia l’illegittimità e la tracotanza. Il movimento pacifista si pronuncia a favore della regolazione dei rapporti sociali, della gestione politica e sociale dei conflitti, del compromesso a tutte le scale, contro l’instaurazione di una cruda violenza fisica ed economica: esso è contro la guerra come aperta negazione di questo orizzonte, come disfunzione, squilibrio da correggere attraverso la democrazia, per un soprassalto di dignità degli Stati e delle organizzazioni internazionali – ma Chirac, il giorno dopo il primo attacco, ha corretto la propria posizione diplomatica, con la realistica ammissione che il nuovo ordine mondiale non potrà essere antiamericano –, prodotto dal «controllo dei cittadini» sulle istituzioni internazionali e dalla disobbedienza civile.
Chi ha in programma di fare «un bel mucchio di cadaveri» al fine di «mantenere il mondo come un luogo sicuro per la nostra economia e come uno spazio aperto al nostro dinamismo culturale» sa bene che il «dissenso» può legittimamente esercitarsi nelle «forme democratiche», e ha già altrettanto legittimamente demandato la polizia a trattare a suo modo le questioni di sicurezza interna, per mezzo di tutta la campagna internazionale di inasprimento della legislazione sull’ordine pubblico seguita all’11 settembre. Non può tollerare che questa «sicurezza» ve n ga minacciata nei luoghi dai quali l’economia e il suo «dinamismo culturale» promanano. Dispiega l’apparato poliziesco perché conta sulla continua e prevedibile teatralizzazione delle proteste, perché ciò gli dà agio di inscenare il noto canovaccio di sedazione della rivolta annunciata, ordinata e prevedibile di chi agita la disobbedienzae si dà obiettivi simbolici. Bisogna disertare questa messinscena.
Il pacifismo è un elemento di debolezza mortale a fronte del fatto evidente di una «comunità internazionale lacerata» dall’atto di forza statunitense ma assolutamente uniforme quanto ai mezzi della repressione poliziesca messa in atto in tutti i Paesi, che unifica profondamente, sul «fronte interno», il paesaggio politico internazionale: a San Francisco come a Milano, al Cairo come nello Yemen, i governanti accolgono commossi gli «appelli alla ragione» dei papi di tutte Chiese ma poi spediscono in forze i loro scherani in assetto antisommossa contro chi questa ragione cerca di far valere, quando le sue azioni superano soglia del «simbolico», cioè quando, invece di limitarsi ai modi e ai tempi della religiosa «domenica della vita», mettono in discussione ciò che, nella vita di tutti i giorni, ha preparato la guerra e ora la manda in onda, tutte le volte, quindi, che il movimento esprime quello che è: il movimento della società che ha paura di se stessa, della forma che, in essa, il rapporto di sfruttamento ha assunto.
N egli Stati Uniti, in Inghilterra e in Spagna, e in tutti i Paesi che si sono fatti avanti nell’intrapresa economico-militare-umanitaria di riunificazione del nuovo mondo, le lotte di massa sono già costrette ad assumere caratteri diversi da quelli dell’opposizione etico-politica di chi, ricordandone la «pericolosità», non vuole che la guerra sia fatta nel nome dei «buoni e semplici cittadini» come da quelli della disobbedienza e dello smascheramento degli interessi», e assumono quelli della sollevazione contro l’ordine sociale per il semplice fatto ch’esse sono già trattate come tali.
Prossimamente: «Dalla ristrutturazione del rapporto di sfruttamento alla comunizzazione»
A la suite de réunions publiques en Italie sur les livres « le Démocratisme radical » et « le Moyen -Orient » (Ed Sénonévéro), les participants de TC et « Alcuni fautori de la communisazione » ont décidé d'élaborer un texte sur la guerre actuelle.
Nous sommes arrivés à une compréhension commune sur un grand nombre de points:
Cependant, malgré une extrême proximité, les textes italien et français ne sont pas la stricte traduction l’un de l’autre et vice-versa. Sur quelques points ces textes représentent deux versions d'un travail commun.
Nous sommes très critiques sur l’utilisation de la notion d’Economie telle qu’elle est effectuée dans le texte italien. Utilisée ainsi la notion déplace la contradiction interne du mode de production capitaliste entre le prolétariat et le capital en une domination du capital sur la société. Lié à cette première notion nous sommes plus que réservés sur le concept de « biopolitique ». De notre côté nous insistons plus que la version italienne sur l’importance de la lutte de classe comme dynamique constitutive de ce nouvel ordre mondial et sur la diversité de son déroulement et de ses résultats selon les échelles. En ce qui concerne le dernier chapitre de ce texte, la principale divergence porte sur l’appréciation du mouvement d’opposition à la guerre (c’est la plus importante de celles que nous signalons). Il semble, à la lecture de la fin de la version italienne, que l’opposition à la guerre suscite des « luttes de masse » dont les caractéristiques diffèrent de la « mise en scène » démocrate radicale du mouvement pacifiste et qui échapperaient à ce cadre limité. Nous sommes sceptiques sur l’existence de ces « luttes de masse » qui, à l’intérieur du mouvement, différeraient du pacifisme. Nous pensons que ce qui est massif c’est le mouvement pacifiste en ce qu’il est démocrate radical. Le mouvement pacifiste ne cache rien et ne met pas en scène de façon à la rendre inoffensive un opposition à la guerre radicale, massive et non symbolique. Quelque soit ses méthodes, en tant qu’opposition à la guerre, sur ce terrain, le mouvement ne peut dépasser le symbolique. Les luttes qui traitent la restructuration pour ce qu’elle est, c’est-à-dire une restructuration de l’exploitation, quant à elles, demeurent limitées et fractionnées, en outre l’opposition à la guerre n’est pas immédiatement leur objet. De notre côté nous insistons sur l’attitude des dockers américains interrompant leur grève pour changer les bateaux pour la guerre et celle des quartiers ouvriers de Milan nettement moins pavoisés de « pace » que le centre ville bourgeois.
Nous en demeurons à l’affirmation commune aux deux versions selon laquelle aucun appel à la « guerre sociale » ne pourra faire dépasser au mouvement son caractère pacifiste de fond. Dans les pays du centre, dont il est question, l’opposition à la guerre ne peut actuellement qu’être un mouvement social et non une lutte de classe. La forme violente que peut prendre la répression n’est pas, en elle-même, le critère d’un soulèvement contre l’ordre social.
En conclusion, il est encourageant de constater que l’accord sur tout n’est pas forcément nécessaire, si chacun est capable de faire quelque chose du travail commun.